BENVENUTI

sul blog del Caffè Letterario La Luna e il Drago

domenica 12 ottobre 2014

La letteratura del pensiero della Luce e non del relativismo.

Importante relazione di Pierfranco Bruni al Convegno sulle Letterature svoltosi a Cosenza

La Calabria è stata protagonista di un importante convegno internazionale sulle culture letterarie del Novecento. Pierfranco Bruni ha svolta una relazione incentrata su Pirandello, D’Annunzio e il resto…”. Relazione articolata ma dura e coraggiosa è stata la relazione di Pierfranco Bruni, Vice Presidente del Sindacato Libero Scrittori, che ha sostenuto che Montale e Pasolini non sono i grandi poeti di cui si parla  e Calvino è da considerare un relativista della leggerezza, e proposto una interpretazione che va da D’Annunzio a Pavese attraversando Cardarelli, Campana, Silone, Michelstaedter e la lezione di Serra e Zambrano. Cosenza. Convegno sulla Letteratura, il Novecento, la filosofia.
************

 La poesia sconfitta di  Montale, Pasolini e Calvino e il relativismo del vuoto mentre bisogna  rileggere nella tradizione della Provvidenza: Ungaretti, Cardarelli e Pavese

di Pierfranco Bruni


Il coraggio delle idee nella profondità del pensiero pesante e mai leggero: questo è il cammino che dobbiamo proporre alle nuove generazioni. Appunti di letteratura. Il 12 ottobre del 1896 nasceva Eugenio Montale. Il Nobel della letteratura che cerca di porsi come il poeta antimanzoniano trasformando la “provvidenza divina” in una esistenza della bufera.
Signori letterati cattolici svegliatevi. Questo grande genio montaliano di genialità poetica ha ben poco. Eppure continua ad essere proposto come il poeta della triangolarizzazione: Montale, Ungaretti, Quasimodo.
Anzi proporrei di cacciare da questo triangolo Ungaretti e inserire Saba e così il laicismo dei laici repubblicani poeti sarebbe compiuto. No, non è così.
I poeti del Novecento vero restano Ungaretti, Cardarelli, Campana – Michelstaedter nella tradizione tra Pascooli e D’Annunzio nella chiusura con Cesare Pavese attraversato da Gozzano.

Montale? La sua poesia del 1925, ovvero i seppiani ossi, uccidono il concetto di provvidenza divina per far posto, dunque, al nulla della parola e a quel male di vivere, che è soltanto il suo vivere male nella contraddizione di una scarsa formazione, tra la volontà di potenza e la ontologia dell’anima della cultura.
Eppure i libri ufficiali, il nozionismo moduilistico, sono pieni del male di vivere di Montale e molti docenti ripetono il cosiddetto male di vivere non conoscendo il kierkegherdiano scavo nella malattia mortale, che lega Seneca alla Zambrano agostiniana ed Eliade a Cioran, che diventa in Giuseppe Berto il male oscuro in una ribellione tra Camus e Mauriac e il contemporaneo Sgalambrto.
Montale non ha creato alcun concetto esistenziale e non ha dato vento ad alcun vero processo poetico: in lui c’è D’Annunzio intrecciato al tardo romanticismo, ma nulla di originale. La poesia non può essere soltanto lingua, la lingua ha un linguaggio metafisico in un processo che è esistenziale ma anche, per altri aspetti, spirituale.
Sfido a trovare una originalità che sia una! La sua incapacità di comprendere il valore di provvidenza divina lo porta a disegnale il male esistenziale che non è esistenzialismo, perché è ben altra cosa e Montale, che di cultura filosofica ne aveva molto poca, la sua visione poetico – metafisica era ben distante dalla cristiana Provvidenza.
E comunque si continua ad innalzare monumenti critici alla non poesia di Montale. L’analisi del testo è banalume se non si parte da un dato linguistico del pensiero della parola. La parola è sempre lo specchio dell’anima o l’anima che si specchia.
Siamo in una cultura del vuoto.
Ci sono responsabilità di una presenza cattolica nel non proporre chiavi di letture altra, ma il problema sta anche nella mancanza di coraggio nel dire che Montale va posto in una discussione tra poesia e non poesia recuperando in parte l’estetica del Croce e la visione “pedagogica” di Gentile nel radicamento vichiano.  
Altrimenti siamo al trionfo della debolezza del pensiero.
Così come il “caso” Pasolini. Di Pasolini cosa resta? Io che ho tanto scritto su Pasolini ho sempre distinto, per una lealtà critica e conoscenza del testo, il non essere suo un modello poetico e il suo essere un intellettuale nella cronaca.  
In Pasolini non c’è poesia.
Gramsci e le cenere. Un binomio nella allegoria del pensiero. Attenzione, non le “ceneri di Gramsci”. Resta l’intellettuale intelligente, forse l’intellettuale che riusciva a leggere il presente politico e sociale attraverso l’interpretare la memoria del futuro.  Penso ai suoi articoli profetici su Aldo Moro o alle famose parole sulle lucciole. E poi? Il poeta non c’è. Ci sono sensazioni come i versi per la madre.
Lo scrittore è il giornalista che racconta i ragazzi di borgata, i ragazzi di vita, ma è una fragilità letteraria scavata nella cronaca di una Roma che conosceva bene.
Il regista è la brutta sceneggiatura del Vangelo di Matteo e il volgare Salò, la cui volgarità è la morte del dialogo tra l’immagine e la parola, sancita proprio a metà degli anni Settanta. Resta Medea? O il Boccaccio assai meglio riletto da Bevilacqua.
Resta soltanto il giornalista diventato intellettuale. Altro non direi. Leggere analizzare studiare per credere.
Anche qui un attento esame di coscienza dovrebbe farlo il mondo cattolico, che sembra dimenticare il proprio patrimonio per dare spazio alla laicizzazione impoetica dei Montale dei Pasolini e dei Calvino.
Già, il leggero Italo Calvino che ha cercato di reinventarsi dopo la morte di Pavese, al quale deve molto, ovvero tutto, attraverso la ricerca della favola o dei Marcovaldo o degli scrutatori sino all’incomprensibile metafora inconsistente di Palomar o del Viaggiatore… che implode già dalle prime pagine sino ancora alle incompiute lezioni americane, che non hanno alcuna valenza letteraria incentrata in una antropologia della cultura tutta motivata su un sistema ideologico. Distante metafisiche di vita da Renato Serra, che ci insegnò cosa è una lezione di letteratura nella vita.
Con Calvino si è al trionfo ancora di un laicismo che conduce al relativismo di un linguaggio e di una letteratura distante dalla grande tradizione dei Papini, dei Prezzolini, dei Palazzeschi, dei Govoni, degli Alvaro, dei Fabbri, dei Pomilio, degli Sgorlon, ma anche dei Silone, dei Pavese, dei Berto, dei Gallian…
Insomma il laicismo ha preso il sopravvento nella cultura letteraria cattolica…
Comunque, eviterei Montale, Pasolini, Calvino oltre a Primo Levi, che non è uno scrittore, e proporrei Cardarelli Michelstaedter, Campana, Berto, alle Lezioni di Calvino darei spazio ad un confronto al Silone di Uscita di sicurezza…  (ancora una volta Calvino riscoprirebbe l’essere scoiattolo definito da Pavese) e nel confronto tra Primo Levi e Marcello Gallian, quest’ultimo testimonierebbe di essere un gigante… Ci vuole non solo conoscenza, ma anche coraggio di entrare nella filosofia della letteratura… Ora siamo alla cronaca non laica, ma al relativismo della cronaca letteraria… E i cattolici letterati fanno finta che nulla sia accaduto, che nulla continui ad accadere…
Riproporre una tradizione letteraria, poetica e narrativa, significa, tra l’altro, superare completamente una visione filosofica che è quella positivista e storicista. Marcuse non esiste più. Sartre è defunto. Gramsci è stato ridotto in cenere.
L’ideologia nella letteratura si è trasformata in relativismo. Basta osservare come viene proposto Luigi Pirandello, un Pirandello coerentemente nella tradizione dell’italianità che va legato a Ionesco, Kafka e Cervantes e non a Verga, Capuana, De Roberto.
Lo scrittore dei nostri giorni o recupera il senso e l’orizzonte di una tradizione nell’eleganza della lingua o diventa il forcaiolo della parola in un linguaggio che si consuma il giorno prima di essere pronunciato, ma nonostante tutto questo linguaggio si appiccica allo sguardo di chi non ha una forza filosofica e storica o letteraria e ontologica e trova spazio nel vuoto che consuma un pensiero in una mezza parola.
La letteratura è altro. Proprio per questo riportare la tradizione tra l’estetica de “Il fuoco” di D’Annunzio e  l’Aurora della Zambrano significa proporre una volontà della contemplazione, in una provvidenza del mistero, in un tempo che è sfracellato dalla leggerezza e dalle idiozie.

Nessun commento:

Posta un commento