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sul blog del Caffè Letterario La Luna e il Drago

martedì 9 dicembre 2014

La cultura dell’oblio dimentica Lorenzo Calogero e l’immensità della sua parola

      di Pierfranco Bruni


La poesia immensa. La poesia dimenticata. La poesia che ritorna tra gli echi dei ricordi e un linguaggio che è fatto di dolore e di vita. Come per dire che il dolore è nella vita. Parliamo di un incontro. Poesia e solitudine. 

Un viaggio indefinibile fatto di spiritualità e di parole. Quelle "dannate" parole che raccontano il mistero di una vita. Non è mai morta la poesia. Non potrà andar via dalla vita e nel tempo. Accetta il silenzio e conosce le distanze delle solitudini. La discussione sulla poesia e sui poeti è tutta aperta ma è necessario non soltanto dialogare ma anche proporre. Dalla rilettura alla ricostruzione. Poesia e ancora poesia nell'atlante dell'esistenza degli uomini che sanno dare peso alle parole e al tempo. A quel tempo che non si storicizza nella cronaca.

      Nel nostro contesto poetico italiano (del Novecento) l'ostracismo verso alcuni poeti è un fatto accertato. Motivazioni? Sfortuna? Emarginazione di letterati? Resta il fatto che ci sono poeti di grande levatura stilistica e poetica che non solo sono stati dimenticati post mortem ma sono stati isolati anche quando erano in vita. La poesia, la recita dell'anima che non conosce gabbie. La poesia è libertà. I poeti dimenticati sono tanti. L'oblio. Facciamoli uscire dall'oblio. C'è, ormai, una geografia della poesia che va ascoltata.
      L'elenco è abbastanza lungo. Ne voglio citare qui solo uno ma per noi ormai il viaggio verso i poeti da ritrovare comincia. "Cade la sera, precipita. Pure occhi/franano a colori come astri/nell'oblio e la grande quiete/s'avvera". Lorenzo Calogero. Nel contesto della poesia italiana del Novecento Lorenzo Calogero è uno dei poeti più interessanti sia dal punto di vista linguistico sia per ciò che riguarda la proposta poetico - tematica stessa. Bellezza e morte tra i luoghi e le metafore. Un poeta leggero ma con una grande consapevolezza del dolore.
      In una temperie in cui correnti e movimenti letterari caratterizzavano lo scenario Lorenzo Calogero, da isolato, imprime un segno particolare ad una poesia che supera, anche se non completamente, l'ancoraggio ermetico e rifiuta totalmente qualsiasi approccio realista (o neo - realista). Eugenio Montale: "…Calogero ha lavorato per molti anni in un incrocio di tendenze, rifiutandole tutte per non impoverirsi, interamente posseduto dal 'demone dell'analogia, della similitudine'".
      Nato il 28 maggio del 1910 a Melicuccà (in provincia di Reggio Calabria). Una costante fragilità esistenziale lo porta ad una vita travagliata, vissuta sulla corda di una irrequietezza che detta dolore e atti di disperazione. Si laurea nel 1937 in Medicina ed esercita per alcuni periodi la professione medica sia in Calabria che in provincia di Siena (a Campiglia d'Orcia). Afflitto da una malattia nervosa (che lo porta a ricoveri in cline specialistiche) tenta, in più occasioni, di suicidarsi.
      La sua vera passione resta, comunque, sempre la poesia: uno sbocco, una liberazione, un colloquiare con se stesso e un dare pezzi di sé agli altri. Quella poesia che ha radicamenti e che non dimentica i segni delle radici: "Voi mi ricordate/qualcosa che non si annulla/della mia fanciullezza: l'infinita/speranza per i prati: Mi rivedo/fanciullo, sento l'ignota/cadenza di tempi andati". Un poeta che non ha mai disdegnato il sogno. Anzi la sua è anche, tra l'altro, una poetica del sogno: "sono in sogno sopra una fanciulla/che mi s'è fitta in cuore" (versi come i precedenti dalla poesia dal titolo "Un amore").
      Lorenzo Calogero pubblica, in vita, diverse raccolte di versi: nel 1936 Poco suono, nel 1955 Ma questo…, nel 1956Parole del tempo e sempre nello stesso anno, con la prefazione di Leonardo Sinisgalli, Come in dittici. Le Opere poetiche escono in due volumi nel 1966 e sono a cura di R. Lerici e G. Tedeschi. Mentre una antologia delle sue poesia si può rintracciare in Poesie del 1986 curata da L. Tassoni. Muore nel 1961: viene trovato morto, ("la sua misteriosa morte" : L. Tassoni) per la precisione, il 25 marzo del 1961 con accanto un biglietto sul quale era annotato: "Non seppellitemi vivo".
      Forse potrebbe essere considerato l'ultimo radicamento di una poetica decadente soprattutto per delle derivazioni esistenzialiste che formano il vero humus della sua dimensione lirica. E' un poeta fuori da ogni schema e pur vivendo in un processo storico fortemente provinciale (qual era la Calabria di quel tempo) riesce ad incidere in un linguaggio che è quello della poesia europea. Il luogo, in Calogero, è una presenza a volte metaforica a volte vissuta con angoscia ma nella sua poesia non ci sono stilemi che rimandano ad una tradizione meridionale e tanto meno calabrese. Luoghi che sono ancoraggi, tasselli di un mosaico.
      Ciò lo si nota immediatamente nel suo "procedere" poetico. Una coerenza che lo rende, tra l'altro, anche originale. E' come se si leggesse un diario scritto, chiaramente, con gli strumenti della liricità e del dettato poetico. Radicamento decadente che non dimentica la lezione tardo romantica moderna e  crepuscolare. "Ora era calmo l'ordine, l'ardire/sopra uno sghembo tondo/che tagliò il viso d'autunno/ sopra un trono (da "Sapevo, e per virtù ridotta").
      La Calabria, indubbiamente, è il sentimento delle radici ma non è la Calabria che diventa malinconia, tristezza, nenia. E', invece, la vita stessa che si intrappola tra le maglie della malinconia. La malattia è la componente determinante nel viaggio esistenziale di Calogero. La follia che diventa misteriosa avventura dell'uomo prende il sopravvento. Ma la follia nella poesia ha un significato fortemente creativo. "Questi colori a stormo/colorano dunque le tue parole… ". "Dopo la meraviglia/passò simile a se stesso un misterioso accordo,/un ricordo" (da Quaderni di Villa Nuccia).
      I luoghi raccontati (il mare, la roccia, il paesaggio) diventano non stereotipi geografici ma luoghi dell'anima. In altre parole: non c'è un luogo geografico per eccellenza, nonostante il suo profondo sentimento di appartenenza, ma quel luogo è una interiorizzazione che si esprime attraverso l'assorbimento della storia e la fissazione di un tempo che resta sempre indefinibile. "Non l'eco rimbalza/due volte sulle rocce, su questo/prato, ove sono rosse, e, di rosso/in rosso, è vano il pallido velluto/ora rosa ora smosso" (da "Rimane fra me e te").
      Proprio per questo Calogero è un poeta di una apertura espressiva universale, di una scelta linguistica importante, di una centralità problematica che ha precisi connotati etici ed estetici, di una esasperante malinconia. Tutto questo rende la sua poesia una voce con una identità non classificabile geograficamente in termini realisti o storicisti ma, pur sempre, Calogero è un poeta della Calabria che ha recitato il dolore del tempo senza lasciarsi trascinare nella descrizione o nella rappresentazione. Calabria, dunque, non come modello storico.
      Non si possono creare parametri letterari con altri poeti o scrittori calabresi. Calogero, poeta calabrese, per i temi e la ricerca linguistica sottolineata resta unico. Un poeta che ha comparazioni europee, la cui esperienza letteraria è di una importanza notevole non solo e non tanto per il poeta in sé quanto per un poeta nato in Calabria che ha ben assimilato un processo culturale e linguistico lontano da schemi prettamente derivanti da una formazione regionale.
      La storia in Calogero non c'è, (ecco: "ma questa nitida apparenza/in fondo sale e tu sei la regina/con volto diverso e di moto in moto/sale nel tuo corpo nel tuo parlare soave,/così era assiduo il volto immoto", da Quaderni di Villa Nuccia), come d'altronde in tutta quella grande poesia che si definisce nel gioco delle allegorie, del raccordare la parola con la fluidità espressiva, nel tracciare sulle ali dell'ironia tragica il mosaico della propria esistenza. Ma c'è il tempo: quel tempo dell'indefinibile, quel tempo che non circoscrive avvenimenti o destini, quel tempo che confonde il ricordo con la vita. E il ricordo e la vita sono, in Calogero, un intreccio indelebile che va, appunto, oltre ogni incasellatura.
      La storia non si supera né si perde nella poesia di Calogero. C'è sostanzialmente, come si diceva, il rifiuto della storia. Ed essendoci questo rifiuto la realtà è come se fosse morte (scrive Antonio Piromalli) e "da quella morte nasce la vita della memoria, il desiderio di morire alla vita presente". Una versione decadente. Indubbiamente lo scontro tra vita e morte trova nella concezione del tempo - memoria una chiave interpretativa che non è rivoluzionaria sul piano poetico ma è tale per un poeta come Lorenzo Calogero vissuto in una terra marcatamente segnata dalla storia e dalla realtà della storia.
      Anche per questo i suoi contatti con personaggi come Piero Bargellini, come Leonardo Sinisgalli, come Carlo Bettocchi sono fondamentali. Calogero guardava con attenzione ai poeti e agli scrittori della rivista "Il Frontespizio". Ci doveva pur essere un motivo preciso. E la sua poesia è una poesia che può stare benissimo all'interno dell'esperienza del "Frontespizio". Egli aveva cercato contatti con quel "popolo" di letterati, aveva puntato a pubblicare i suoi testi su quella rivista e questa sua indicazione è una vera e propria scelta in merito ad una posizione letteraria. Una poesia tutta contenuta nell'interiorizzazione dell'anima. Questa metafora incarna la testimonianza di una solitudine.
      In Calogero, ed è qui che si potrebbero creare dei raccordi, la solitudine è una agonia sia dettata dalla sua condizione psicologica e quindi esistenziale sia dovuta, in un certo qual modo, dal suo "abitare" in un luogo di solitudine come la Calabria. Ed è qui che la Calabria diventa condizione esistenziale ma mai storica. Un altro punto in favore di una concezione decadente. Calogero è, in fondo, uno di quei poeti che imprime segni, che percorre viaggi tutti interiori, che dura nella civiltà della poesia.
      Queste sottolineature sono delle costanti che rendono Calogero un poeta fedele alla tradizione novecentesca. Una solitudine intensa nell'intercalare di una follia che recita morte. In quella sua Calabria la solitudine, che per il poeta non diventa mai una rappresentazione storica, è una metafora del tempo nel quale il poeta si testimonia, smarrendosi, cercando poi di ritrovarsi attraverso la parola e allontanandosi, alla fine, definitivamente lungo i labirinti del mistero.
      Il mistero e il tempo. la vita e la follia. "Non so che vita pressante è questa!/Resta un dolore, un modo così strano". Non si tratta, dunque, di luogo geografico. Per Calogero non è così. Si tratta di un poeta dimenticato, letto, conosciuto tra gli ambienti degli addetti ai lavori ma si è impedito di farlo andare oltre. Le grandi case editrici dovrebbero meditarci un po' su.
      Calogero non è il poeta della piazza né il poeta della domenica. E' un poeta dell'anima: "e sembra un sogno, ma non ho nessuno./O anima, o madre dei poeti…" (da Quaderni di Villa Nuccia). Un poeta, dunque, nello strazio di amori che recita il tempo del dolore attraverso i luoghi che sono essenza, metafora e misterioso incantesimo di un'infanzia perduta e recuperata tra i rigoli dei versi che non sono consolazione ma una costante e sublime commozione. Un poeta nella solitudine. Un poeta vissuto di solitudini. Non solo poesia del ricordo. Ma poesia che resta nella memoria. Sublime nel linguaggio. Nell'infinito che strazia.
      I conti con questo nostro Novecento poetico che non è andato via bisogna ancora farli. E si deve partire proprio dai poeti dimenticati. Ma sono questi poeti che hanno tracciato percorsi veri. Percorsi che restano nella civiltà della letteratura.

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