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giovedì 22 gennaio 2015

Ciro De Roma a cinque anni dalla scomparsa: il medico poeta nella città del canto ceramico

di Marilena Cavallo


Sono trascorsi cinque anni dalla scomparsa di Ciro di Roma. Medico. Studioso di storia “patrie”, poeta e personalità di grande umanità. Scompare a 88 anni. Grottagliese ma profondamente radicato in quel mondo ceramico e rupestre che è il Mediterraneo delle terre. Tra i suoi libri e le sue passioni storiche e letterarie ci sono le sue poesie, i suoi versi e quell’agave che è paesaggio e metafora d’0anima. Scrivendo su De Roma, in un mio saggio, ebbi a dire che i suoi sono sempre versi per raccontare. O versi per raccogliere il taglio di una vela nella vita che unisce e allontana e nel tempo che resta la cifra del nostro quotidiano.
Nei Versi di Ciro De Roma la vela è un navigare tra il vento e il porto. Dalla sua città ad altri luoghi. Da altri luoghi alla sua città. Se da “Grottaglie mia” si percorre a ritroso il viaggio di una esperienza letteraria qual è stata quella di Ciro De Roma ci si rende immediatamente conto delle varie articolazioni che hanno attraversato la sua ricerca umanistica e la sua curiositas esistenziale.

Una curiosità in cui la ricerca culturale è stata sempre alla base dei suoi input intellettuali e del suo modo di rapportarsi sia con le realtà nazionali che con quelli locali. Una curiositas che ha coinvolto sia l’uomo che il lettore, sia la sua “precisazione” linguistica sia il tracciato sul quale i segni dell’onirico si sono fatti modelli espressivi.
Percorrendo a ritroso, dunque, queste energie della parola ci si rende conto di almeno due chiavi di lettura nel suo scavo poetico. 1. Quella della interpretazione modulare che proviene dal suo testimoniarsi e dalla sua esperienza nei contenuti. 2. Quella dell’uso del vocabolo che diventa vocabolario vero e proprio.
Ma c’è una vita nei suoi versi che sono tratteggiati nel corso degli anni: dal tempo che cuce e ricuce il mosaico dei ricordi innescando, di volta in volta, elementi che toccano il senso dell’etica e l’ironia contemplante.
In fondo i versi di Ciro De Roma sono versi contemplanti. Ciò lo si nota nei due “spezzoni” che formano un unicum di suggestioni. Una tela che si intreccia e tra le maglie di questa tela ci sono gli anni della scrittura, c’è il tempo, ci sono gli incontri e le letture. C’è anche un modo di leggere la storia e la politica del suo tempo.
Ma De Roma è stato sempre convinto che la letteratura e il raccontare sono ben altra cosa della storia e della politica pur vivendone i confronti e gli intrecci stessi. Quel sentimento della “Grottaglie mia” che è, in fondo, la mia città, la mia isola, il mio quartiere, la mia appartenenza (sempre ad ascoltare il De Roma) in un radicamento in cui non si bada alla forma dei linguaggi ma alla forza del sentimento. Il verso costituisce l’intelaiatura di un magma che resta incollato tra le viscere della sua contemporaneità.
I versi di De Roma, pur in un linguaggio che risente di una tradizione scolastica, a volte romantica o decadente, sono una vero e proprio “engacement” o “commitment” sul piano etico ed esistenziale. Il senso dell’etico e quindi del rapporto tra estetica e morale assume una valenza di impegno anche attraverso la parola. Un sentimento che lo si trova tra le pagine sia della prima che della seconda parte di questo lavoro che pubblica un vero e proprio “human journey” o un  “mood” in cui la metodologia educativa resta un punto di sicuro riferimento.  
Il sentimento supera o meglio oltrepassa il linguaggio o forse si potrebbe dire i linguaggi. Le dediche che sono l’incipit di molte poesie costituiscono per il lettore un modello di approccio e per l’autore lo stimoli, l’iniziazione vera e propria che nasce sempre da una emozione. I versi sono dettagli di vita.
Per chi viene dal mondo della scuola non può che sostenere che i due elementi sono, a volte, connaturati soprattutto per chi si applica sull’analisi del testo. E in questi versi l’analisi del testo ci offre una possibilità di metodologia che lasciamo chiaramente al lettere che non solo diventa interprete appena letto il libro ma si fa portatore di valori: quei valori che sono ben espressi tra le allegorie dell’agave e i paesaggi o i viaggi o le amicizie o gli affetti che sono il principio di un cammino.
Sono versi che si pongono delle comparazioni e non ci spingono a comparazioni con altri autori ma l’humus meridionale ha una sua caratterizzazione. Il paese e la città ricontestualizzano un luogo e la sua presenza a Grottaglie, in questi versi, è fortemente vissuta come una metafisica della vicinanza – lontananza.
Mi sembra un dato fondante perché la sua città esiste sempre anche quando si avverte il distacco e l’amore – voler bene non è una conquista. Piuttosto è un essere nella solidarietà di una parola comunicante.
Una interiorità che è speculativa sia rispetto ad alcuni testi in prosa sia rispetto alle sue relazioni in alcuni convegni. L’amicizia è un dono che vive di scambi di affetto. La parola se non si fa conoscenza e propriamente approfondimento del conoscere non dialoga, non partecipa, non si proietta nell’altro. E Ciro De Roma ha strutturato o in alcune occasioni ristrutturato un linguaggio comunicante proprio attraverso i versi. Non è cosa facile al di là dello spessore lirico stesso. Non è cosa facile perché nello specchio della parola si identifica la vita, anzi una vita.
Ma quando un fiore sboccia tra i rovi ci sono altri ramoscelli ma anche altre spine. Tra i ramoscelli e le spine l’agave è un colore dell’esistere. Un’agave in fiore. O un’agave tra i rovi. Se si riesce a cogliere il fiore bisogna coglierlo tra le spine e i rovi. Che agave sarebbe, altrimenti? L’agave è come la parola detta o non detta, taciuta e nascosta ma mai mascherata.  Forse una metafora o un incastro di quel vocabolario al quale de Roma si affida e affida il sentimento. Un codice antico che per essere tramandato ha anche bisogno della parola che in questo caso assurge a segno o addirittura a simbolo.
La Grottaglie dei simboli, dei ricordi, delle amicizie, delle figure che sembrano un arcano ma che si mitizzano nel battere del verso. Nella consapevolezza “raccontata” dei versi il passaggio letterario è anche un passaggio epocale. Anzi un attraversamento di epoche e di generazioni. De Roma è come se trascrivesse questo attraversamento sia sotto la forma linguistica sia toccando i fatti che fluiscono nel vocabolario usato nei versi. L’attraversamento è un segno di maturità e di gradualità.
In questo c’è la funzione che il linguaggio  non solo si evolve ma si trasforma. Trasformare il linguaggio del verso in una istanza verbale comunicante. Mi sembra un attraversamento interessante. La recita della parola ci porta alla metafora dello specchio che non è soltanto il suo ma di una intera comunità. Nei suoi versi il saper accogliere le emozioni in un batter di parola significa anche proporre la parola stessa come consapevolezza. Voglio ricordarlo così. Con parole antiche. Già dette, ma tutto si vive sempre a futura memoria. Nella letteratura e nella vita.

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