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sul blog del Caffè Letterario La Luna e il Drago

lunedì 26 ottobre 2015

L’attesa è un promemoria dell’assenza nell’umano morire delle esistenze

di Pierfranco Bruni



C’è una voce che stringe il silenzio e un silenzio che cerca di farsi voce sottile. Nel dramma, a volte vichiano, di Luigi Pirandello il silenzio è il rigo che congiunge il senso di morte con il senso di abbandono. La dimensione greca è lo scavo che graffia e sgretola le pareti dell’anima, che si portano appiccicate il tragico viaggio di un uomo che, volendo diventare personaggio, intreccia la storia dell’uomo con l’ironia del personaggio.
È un assurdo che pervade tutta la metafora pirandelliana raccogliendola ora nella poesia ora nelle novelle e romanzi ora nel teatro. La morte sta sempre accanto a chi non può dormire o non riesce a dormire.

Una splendida visione che giunge dai versi “L’ultimo caffè” da Poesie varie. Si comprende come non c’è mai vacuità e tanto meno leggerezza, perché quel legame tra lo scrittore e il personaggio è una interpretazione addirittura vissuta di contraddizioni, in cui l’ambiguità è mobilitazione di processi non solo culturali ma ideologici. 
Ma è pur vero che se l’uomo vive il suo camminamento nel senso di morte, ovvero sulla contemplazione dell’Assoluto – Morte - Vita, il personaggio lo affronta con quel riso che è il “ridersi anche della morte” (cfr. Maschere nude).
La sua poesia, con la quale si attraversa la ciclicità del ritorno e l’archetipo della memoria, non è mai una voce urlante. È quasi sempre un silenzio che cerca di farsi voce lungo il tragitto dell’esistere nella vita e nella morte stessa. Perché in esse insistono le “ombre che passano” e in ogni ombra c’è una maschera nuda che intrappola anche la morte.
Negli ultimi versi di “Pier Gudrò” si legge: “Posso chiudere domani/gli occhi, pago e soddisfatto./La mia parte io te l’ho fatto,/figlio mio. Bacio le mani.- ”. Si ascolta un candore di serenità che va oltre gli schemi di una letteratura della “responsabilità morale”, e il tempo dello spazio naviga allontanando quelle ombre che sono incisi di mistero, ma ogni personaggio resiste alla realtà, perché ha segreti da custodire nel pallido paesaggio dei giorni che vengono illuminati straniamente dalla luna: “O Luna, tu no ‘l sai, ma in fila tante/e tante lune ha ormai quasi ogni strada/della città, che accese in un istante/son tutte; e lì nessuno a te più bada” (da “Luna sul borgo” inZampogna).
Ecco come si intrecciano i generi che diventano ancor più confessioni (come ebbe a dire Maria Zambiano), ma i temi dentro le metafore rimangono e sono non più silenzio o voce. Bensì sono sottovoci di notte. “Io sono come l’albero che aspetta/la sua stagione e morto intanto pare” (da “Attesa” in Zampogna).
L’attesa è un promemoria di chiodi conficcati nell’anima che decodificano l’assenza, anche quando la parola si incava in una assonanza, o il personaggio resta nella sua solitudine, sulla scena a recitare semplicemente se stesso.
Come si può allontanare il labirinto dalla propria immagine o dal proprio immaginario? “Vivo del sogno di un’ombra nell’acqua” (da “Improvviso” inPoesie varie). Questo vivere del sogno di un’ombra che si posa nell’acqua è l’isola nascosta nel labirinto.
In fondo la poesia di Pirandello è il grimaldello che apre le porte del giardino della coscienza di ognuno di noi. Quella poesia che non è verso soltanto bensì cocci di esistenza stesi sulla graticola dell’umano morire, che non è l’umano morire del tempo. È il morire umano delle civiltà che abitano le nostre esistenze.

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