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venerdì 1 gennaio 2016

A cento anni della nascita di Giorgio Bassani. Da il Giardino agli Occhiali d’oro

di Pierfranco Bruni



      Cento anni fa nel 1916 nasceva Giorgio Bassani. Pietro Citati ha scritto che Giorgio Bassani “ha sempre dimostrato di possedere una grande accortezza”. Perché, in fondo, è stato sempre “uno scrittore intimamente legato al senso di una autobiografia ideale, o per meglio dire alla dimensione lirica delle sue stesse esperienze di vita” (siamo a Luigi Baldacci). Esperienze che si sono trasformate in testimonianze e queste hanno dato vita alla “sua” forma letteraria. Sia nel romanzo che nella poesia. L’amore è stato uno dei temi che hanno interessato la sua ricerca letteraria soprattutto negli ultimi anni. Ma quest’amore, recitava in Epitaffio, “quando succede è sempre/un altro fatto”.
 
      Si incontrano e poi si allontanano. Il poeta e lo scrittore. La cifra della vita è nella decifrazione della parola. Una parola nel sentimento ascoltato e offerto. “…lo so che erano parole, le solite parole ingannevoli e disperate che soltanto un vero bacio avrebbe potuto impedirle di proferire, di esse, appunto, e non di altre, sia suggellato qui quel poco che il cuore ha saputo ricordare”. E’ la chiusa  de Il giardino dei Finzi – Contini. “Dunque addio e addio ancora, dolce squilla serale”. E’ Giorgio Bassani in Un’altra libertà. L’attesa che non conosce speranza. Sembra un poeta che ha dimenticato di chiedere o di cercare. Sembra il poeta del finito. Di un finito che conosce, comunque, il senso della rinuncia. La ragione, in Bassani, ha il sopravvento sul bisogno di capire che c’è una provvidenza laica in ogni viaggio. Ma in Bassani la provvidenza è un volo di gabbiani e la ragione è l’esistere.

      La poesia, il romanzo, la saggistica. Un intreccio in cui la pagina letteraria assume i contorni di un superamento esistenziale. E’ difficile poter distinguere quanta vita (vita come vissuto proprio che si decodifica in quell’io narrante o in quelle immagini poetiche che assorbono esistenza vera) c’è nella pagina e quanta letteratura, in fondo, traccia il suo percorso umano.
      Ma un fatto è certo. Giorgio Bassani, che era nato a Bologna il 4 marzo del 1916 da una famiglia israelita di Ferrara (ecco il suo costante ritornare alle origini o radici ferraresi) e morto a Roma 2000, trasposta nella letteratura un “pezzo” di vita ma di quella vita che sulla pagina accorpa la realtà, la cronaca e i ricordi. E’, comunque, come se ci fosse una ragnatela fitta tra poesia, romanzo e impegno critico. Proprio in Le parole preparate e altri scritti di letteratura del 1966 Bassani scriverà: “Ero un ragazzo dotato di un fisico eccellente (giocavo al tennis niente affatto male: ormai posso dirlo senza falsa modestia) e la vita, per me, era tutta da scoprire: qualcosa di aperto, di vasto, di invitante, che mi stava dinanzi; e a cui mi abbandonavo con impeto cieco, senza voglia, mai, di ripiegarmi su me stesso un momento solo”.
      Una trascrizione, per immagine, di se stesso che resta certamente come pegno di una autobiografia, ma che serve per tracciare una visione cronachistica all’interno poi dei personaggi che si intrecciano con le dimensioni letterarie dell’io narrante. In Bassani c’è, certamente, il superamento della realtà e della cronaca (anche se questi insistono fino all’inverosimile) ma non vanno oltre il ricordo. Il ricordo appunto è la chiave di lettura della sua pagina.
      Si pensi alla sua poesia: da Storie di poveri amanti del 1945 a Te lucis ante di due anni dopo; da Un’altra libertà del 1952 a L’alba ai vetri del 1963; da Epitaffio del 1974 a In gran segreto del 1978 sino a In rima e senza del 1983. Una poesia che raccoglie, come alcuni critici hanno sottolineato, parvenze crepuscolari, pur nel tentativo di filtrare il “male di vivere” montaliano, il cui esito non è lo stesso dei poeti crepuscolari. Uno squarcio indelebile: “Questa è l’ora che vanno per calde erbe infinite/nel mio paese gli ultimi treni, con fischi lenti/salutano la sera, affondando indolenti/in sonni dove tramontano rosse città turrite” (da L’alba ai vetri). Una poesia che si documenta senza alcun dubbio come divisione tra la vita e il tempo raccogliendosi nel ricordo.
      I suoi romanzi (a cominciare da Una città di pianura pubblicato nel 1940 con lo pseudonimo di Giacomo Marchi che va considerato come un primo esercizio non solo di scrittura ma anche di elaborazione di una costruzione narrativa e poi successivamente: La passeggiata prima di cena del 1953,Gli ultimi anni di Clelia Trotti del 1955, Cinque storie ferraresi del 1956, Gli occhiali d'oro di due anni dopo, Storie ferraresi del 1960, Il giardino dei Finzi – Contini del 1962, Dietro la porta del 1964, L’airone del 1968,L’odore di fieno del 1972, Il romanzo di Ferrara del 1973) sono romanzi della cesellatura descrittiva. Un romanzo di provincia che racconta la provincia attraverso il filtro della storia che mette sulla scena fatti e vicende (dal Fascismo alla Resistenza) che vengono a loro volta impressi nella struttura del personaggio.
      Ciò che resta, in fondo, non è la vicenda di una famiglia ebraica o il racconto delle storie ferraresi in un contesto ben definito che è quello degli anni del Fascismo e della realtà dell’ebraismo soprattutto dopo il 1938. Ma è il disegno dei personaggi che diventano caratterizzazione nella storia. Si pensi ad una per tutti: Micòl ne Il giardino dei Finzi – Contini. E’ un solo esempio.

      Ma i personaggi in Bassani assumono una dilatazione e nonostante l’impegno del raccontare sono loro alla fine che emergono proprio con la loro presenta sia morale che fisica. Si pensi ancora dalle Cinque storie ferraresi a Lida Mantovani. O  a Elia Corcos o ancora a Pino Barilari. O ad Athos Fatigati in Gli occhiali d’oro. Si pensi alla descrizione dell’ultima giornata vissuta da Edgardo Limentani in L’airone.  Non resta il fatto in sé che ha la sua valenza umana, culturale, storica. Resta la definizione di un personaggio che si identifica come ricordo che supera, in questo caso specifico, il dato della cronaca.
      Il romanzo di Ferrara viene completamente riscritto e ripubblicato nel 1980. Ma c’è da sottolineare con Geno Pampaloni, pur essendo una chiosatura del 1969, che: “La prosa di Bassani dal ’56 in poi non muterà più registro pur nell’approfondimento delle scelte tematiche; e continuerà a muovere da una profonda vibrazione affettiva e morale e a trasferire in essa le sue diverse e anche contradditorie motivazioni”.
    Ci sono alcune componenti fondamentali nella narrativa (ma anche nella poesia) di Bassani. La definizione della provincia come storia di una realtà. La temperie politica. La “diversità” dei personaggi che si raccolgono in un io narrante dolente (si pensi ancora a Gli occhiali d’oro) che esplode in un conflitto morale ed esistenziale. Il costante campeggiare della solitudine. La maschera del ricordo che si fa gioco – forza per continuare la recita nel quotidiano. In tutto questo lo scrittore vive le sue contraddizioni che restano le contraddizioni dell’uomo, dello scrittore stesso e dell’intellettuale.
      Il più delle volte si avverte un distacco tra lo scrittore e l’intellettuale (Bassani si è dedicato al giornalismo ed è stato redattore di riviste come “Botteghe Oscure” e “Paragone”, è stato consulente di case editrici, a lui si deve, per onore del vero, il “lancio” de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, è stato un intellettuale impegnato nel campo della letteratura) e in alcuni romanzi questo distacco diventa un vero e proprio conflitto che viene trascinato nella coscienza dei personaggi attraverso un sofferto io narrante.
      Si ritorna ossessivamente ai personaggi i quali non hanno scampo: vivono la vita in un cimitero di ricordi. Ha scritto bene Massimo Grillandi riferendosi a Il romanzo di Ferrara quando sostiene che in questo libro c’è “un inno alla morte”, anzi si tratta di “un ininterrotto ‘libro dei morti’ e dove … i personaggi appaiono fitti, più vivi dei vivi”. Ecco, allora la risultante di un romanzo ricco di testimoni, che sono i personaggi, e di un unico protagonista, che è appunto l’io narrante, che nonostante il trasporto crepuscolare si definisce per una “illuminata razionalità” (Grisi) attraverso la quale si proclama la sua poetica.
      Qui è, forse, il limite. In altri termini: il romanzo, chiaramente, resta romanzo con i suoi ambienti, le sue carature strutturali, le sue impostazioni narratologiche ma i fatti, il dettato del racconto vive nella cronaca. Il tutto sembra restare al di fuori di quella memoria che si segnala come mito in una letteratura della durata. Gli stessi sentimenti sembrano rientrare nella pacata “illuminata razionalità” con la quale non solo si convive, nel mondo di Bassani, ma si esercita un lento processo di condizionamento da parte della storia sul tempo. Non mancano le immagini che danno dimensione alla parola e che si tuffano poeticamente nel ricordo.
      Bassani aveva consapevolezza di ciò. Una consapevolezza malinconica e senza nostalgia nel romanzo. Una consapevolezza che lo aggrediva però nostalgicamente nella poesia e che faceva della sua stessa poesia un filtro importante soprattutto se si pensa ai versi del 1984 il cui “Preludio” è in una nostalgia che addirittura si cerca: “Lascia che nel profilo/ che ti chiede io colga/la cifra che risalva/in un canto il mio grido”. Di metafore il Novecento poetico italiano è colmo: qui, la nostalgia nella metafora.
      Non una contraddizione, tra romanzo e poesia, effimera. Ma piuttosto una contraddizione di merito che è leggibile in un testo di saggi e di memorie del 1984 dal titolo: Di là dal cuore. Forse una metafora per raccontare, nell’inquieta contraddizione dello scrivere, se stesso. O meglio per raccontarsi. Al di là questa volta, pur vivendola nel di dentro, della cronaca. Un’ondata di silenzio nel vento di aprile. Ma la morte e la vita sono un intreccio sulla pagina del tempo: “Lo so quel che significa lo/indovino/questo frusciare qui vicino questa cosa che colma fluisce/calma e gioiosa/ed io per la prima volta immobile impietrito/nel mezzo della corrente/io duro io gelido io assente io sbalordito/a guardare”. Geno Pampaloni lo ha definito come “un giovane non credente affascinato dal Dio che comanda la storia e lascia le anime la loro testimonianza alla morte”. Una testimonianza, questa di Pampaloni, che raccoglie il sentire dello scrittore e i sentieri dell’uomo.

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